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  • LUNI SUL MIGNONE

    APPUNTI DI STORIA LOCALE

    (R. Vanì - 24 II 2008)

    le origini

     

    Un’elevato sperone tufaceo, reso inaccessibile su tre lati dai Torrenti Canino, Vesca e Mignone, legato per un lembo di roccia da un retrostante pianoro alle colline circostanti, non poteva passare inosservato per le esigenze dei nostri Padri Etruschi. Ma già, ancor prima del popolo Tirrenico, il luogo venne eletto a propria dimora da popolazioni preistoriche/appenniniche, quale terminale della loro lunga, incessante, semestrale peregrinazione.

    Ma non ci è dato modo di capire quale fu “le trait d’union” che coinvolse e riunì pacificamente tante genti della nostra regione, appartenenti alle facies del bronzo, del ferro, proto e Villanoviane, per farle confluire, poi, intorno al IX secolo a C., insieme a popolazioni non indigene -Lidie ?- in un unico e grande popolo, quello Etrusco!

    Appunto qui a Luni, più di ogni altro luogo d’Etruria, appare evidente una tal commistione di popoli, ed allora il mistero sulle origini degli etruschi si infittisce ulteriormente e si allontana sempre più da ogni plausibile interpretazione razionale, ove si consideri che durante le operazioni di scavo, proprio qui in Luni, è venuto alla luce un frammento di ceramica Micenea!

    Una rondine non fa primavera, d’accordo, ma che ci faceva allora un vaso Miceneo in Luni - ben lungi dal mare 18 chilometri c.a. in linea d’aria e 25, almeno, seguendo invece le anse sinuose del fiume - lontana da traffici, commerci o strategie politiche del tempo? E quel vaso di Micene come è giunto in Luni, semplice avamposto tarquiniese sulla via dei traffici minerari fluviali dei Monti della Tolfa? Ai “posteri l’ardua sentenza”, ove si tenga nel debito conto che il popolo miceneo venne scacciato dalla Grecia per mano degli Achei intorno al 1500 a.C., e che dopo tale data non risulta attestato in nessuna sponda prospiciente il mar mediterraneo. Direi che, al riguardo, quasi tutti i maggiori e più profondi studiosi di etruscologia del tempo: Dempster, Passeri, Gori, Guarnacci, Campana, Gell, Dennis, Canina, Gerhard, Pallottino, Camporerale, Cristofani ed altri ancora, hanno formulato ciascuno una propria teoria, arricchita sempre più man mano che i “massimi pensieri” del momento hanno partorito proprie congetture ed ipotesi sulla misteriosa provenienza del popolo etrusco. Anzi, le ipotesi formulate, lievemente diverse l’una dall’altra seppur non smentendosi a vicenda, lasciano campo libero ed aperto per ulteriori congetture.

    la scoperta

    Il sito, prima del 1960, parzialmente sconosciuto, venne indagato scientificamente dall’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma. Una serie di scavi sistematici (tasti), operati in senso longitudinale, hanno consentito di trarre in luce una buona parte delle trascorse vite di Luni, rivelando aspetti storici di straordinaria importanza. Fu qui infatti notata la presenza di emergenze che noi prenderemo in esame, partitamene, a cominciare dalla porta, per così dire, orientale, da cui ci immaginiamo di visitare il mondo di questo meraviglioso paese, accolti, per così dire, attraverso l’ingresso principale dal popolo sovrano, così ospitale con gli amici, quanto altrettanto spietato con chi intendeva impossessarsi delle loro terre.

    sperone orientale

    Lungo i suoi margini si intravedono cospicui resti di tratti di muraglione etrusco di protezione, elevato o ricavato a fortificare il punto più accessibile della costa, che poco si eleva dalle sponde del Torrente “Vesca”.

    Sulla destra del sentiero di discesa, opposto ai tratti del muraglione, scarsi resti di castello alto medievale, posto a fortificazione dell’altopiano.

    Sul margine settentrionale, resti di fondi capanne dell’età del ferro, di un altro muraglione di difesa con annessa porta etrusca (tali emergenze risultano ora quasi totalmente invisibili, ricoperte dalla vegetazione).

    zona centrale

    Nella parte elevata, su Monte Fornicchio (o tre Erici), resti di fondi di grandi capanne, desumibili dalle cavità scavate per l’inserimento dei pali di sostegno. Sotto queste, scendendo un piccolo sentiero, alcune abitazioni (etrusche?) ricavate in negativo nei cospicui massi tufacei. Una di queste, posta su due piani, presenta ancora la relativa scala interna di collegamento.

    Continuando il sentiero, in direzione ovest, verso l’abitato etrusco di Luni, si incontra, sempre alle pendici di Monte Fornicchio, una singolare capanna entro cui, sul pavimento sono state scavate, radialmente, tredici canalette. Era questa una sala di riunione, ove entro ciascuno spazio ricavato tra una cabaletta e l’altra, prendeva posto un rappresentante della dodecapoli del popolo etrusco!

    Tagliata verso l’Acropoli già appenninico poi etrusco ed infine paleocristiano:

    La tagliata, modesta strada di accesso verso l’Acropoli, ricavata, come consuetudine delle popolazioni etrusche, portando via la base stradale del tufo in eccesso, ogni volta che veniva effettuata manutenzione. Tale lavoro consisteva nel ridurre (tagliare) l’elevato che, con il correre del tempo sporgeva sempre più dal fondo della strada stessa dai solchi delle ruote dei carri, impedendo a questi, di avanzare, perché toccava il piano di trasporto dei mezzi. Tale tagliata, per gli interventi operati nel tempo, è scesa sotto il soprastante livello tufaceo di ben oltre 7 metri.

    acropoli

    Usciti dalla strada (la tagliata), sulla sinistra, si intravedono resti di emergenze etrusche mal conservate, forse un tempio, forse una tomba principesca.

    Risalendo verso il sentiero, si incontrano i resti di tre singolari capanne, dal fondo rettangolare, del periodo appenninico. Quella più ampia, presenta la dimensione di metri 42 x 4, ripartita in varie sezioni, ciascuna delle quali destinata ad una famiglia diversa. Sono queste davvero pratiche ed inusuali per il popolo transumante e rappresentano una innovazione per quella civiltà.

    Procedendo invece verso il margine sinistro dell’Acropoli, si può scendere fino a raggiungere una terrazza, da cui si gode una prepotente vista sul Mignone. E’ si intuisce il perché gli etruschi, temendo un imminente assedio dei Romani, nel IV sec a.C., avevano qui concentrato l’intero paese, isolando questo tratto, dal resto del loro territorio disponibile, attraverso un profondo fossato artificiale trasversale e le due coste inaccessibili, elevate, di cui alcune parti naturali ed altre chiaramente artificiali.

    Non ci resta ora che visitare l’ultimo tratto, forse il più bello, significativo ed emblematico, di Luni.

    La casa del Ras e la Chiesa rupestre.

    All’estremità ovest del pianoro, è posta una capanna della fine dell’XI ed inizio X secolo a C., scavata nel tufo, della dimensione di c.a. mt. 18,50 x 9 x 6,30 metri di altezza, elevata su due piani, rivestiti da tavolato, presumibilmente utilizzata dal Capo villaggio (Età del ferro) risultò, nel corso degli scavi, distrutta da un incendio. Fu così, presumibilmente, che il Ras, temendo ulteriori distruzioni, fece costruire un ambiente esterno, adiacente ad essa, da destinare a focolaio. Questo focolaio realizzato nel tufo, fu poi trasformato, nel periodo etrusco, per la sua particolare sacralità che sprigionava, a tempio e, in epoca paleocristiana (VI – VII sec d.C.), a piccola chiesa rupestre. Il luogo mostrò, fin dai primi scavi, una piccola area cimiteriale, tra cui anche un tofet (luogo di sepoltura per bambini).

    Vi è poi la rupe terminale, da cui si gode un’immagine suggestiva sul fiume Mignone e sul noto “Ponte di ferro”, eretto per il passaggio della linea ferroviaria Civitavecchia–Orte (1928) e recentemente restaurato. L’opera, deprecabile, ha sancito, con il taglio del tratto di rupe, lo scollegamento dell’Acropoli dalla sua necropoli. Sarà la maledizione etrusca per questo scempio, che ostacola, tra un problema e l’altro, un accordo tra i politici tale da far ripristinare la interrotta linea ferroviaria!

    Sotto poi, a metà della rupe, la famigerata scala di ferro, che permette. con poche vertigini, di discendere al piano.

    Sulla sinistra si intravede ancora la fatiscente e fantomatica stazioncina di Monte Romano e le altre infrastrutture ferroviarie, quasi invisibili. Qui il “cinghiale”, posto sul margine della rupe, socchiudendo lievemente gli occhi, riesce a rivivere una mattina di tanti, tanti anni fa, quando appena compiuti 8 anni (otto!), scese questa fermata dalla littorina proveniente da Aurelia, in compagnia del caro Zio Alberto, autentico magister, papà putativo, che lo iniziava all’amore per la natura! Ed allora il luogo era davvero magico. La stazioncina, così graziosa, con le pareti rivestite da maioliche arancio, e tutt’intorno un succedersi di aiuole fiorite, circondate da macchia mediterranea, ovunque corbezzoli, lentisco, cisto, mirto, erica, rosmarino, fillirea, euforbia e ginestre. E la littorina poi lì a far acqua per le caldaie, da un attrezzo che con la propria proboscide, a guisa d’elefante, dall’alto ne versava ettolitri entro i serbatoi. E poi il ripartire di questa e gli echi del motore, del clacson, e del “tum tum” delle ruote sulle fratture dei binari, riflessi attraverso pareti verticali, ponti e gallerie, mentre la gente, discesa dal treno prendeva posto, con premura, sulla corriera per Monteromano.

    Anche oggi il luogo è davvero suggestivo, ma ben diverso per quel tipo di ricordi …

    Luni – Tyrsenoi – Rasenna

    Veglia al pallido raggio di luna la piena del fiume lambire sempre più la tua costa.

    Non temere quel sordo fragore del flusso, ora quieto ora intenso, chè vita può dar ciò che vita dispensa.

    Quel volo affrettato di uccelli che sconvolse ancor più le tue notti già insonni, d'altre tristi vicende è presago.

    Va il nemico alla Selva Cimina, ed il picco tufaceo predar e gloriarsi di scempio delle misere spoglie mortal de' tuoi cari e di mirabili templi abbattuti.

    E tu ramengo a vagar quella terra che un dì florida, pria che il popol sovrano varcò e il sorriso gentile tuo tolse, or giace sepolta e tumuli infranti tra cardi e tra spini, dal ricordo sempre più vago all’oblio...

    Qual tristezza, passar tra le pietre scomposte e avvertire quel sordo richiamo di passati legami, di presenze propizie e quel vuoto profondo di radici recise, e'l pensiero rinnova ‘l dolore e l'eterno mistero del popol Tirreno.

    Vanì, 1990



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